di Maria Cozzolino
Praglia 16 maggio 2019. È una calda mattinata di maggio dopo una notte di pioggia, il sole squarcia le nuvole in un cielo cobalto svelando i verdeggianti Colli Euganei con i sui vigneti e una rigogliosa vegetazione, in mezzo a questa boscaglia si erge l’Abbazia di Praglia a soli 12 chilometri da Padova, presso l’antichissima strada che conduce ad Este.
È in questa distesa incantata tra le mura storiche del monastero che un manipolo di persone, tra studenti, ricercatori, architetti, scrittori, storici dell’arte, ingegneri, docenti universitari, danno inizio alla IV edizione del seminario “Armonie Composte”, che anche quest’anno vuole aprire uno spazio di riflessione sul rapporto tra territorio e architetture benedettine. Il tema scelto sarà l’acqua.
Il monastero ci accoglie con i suoi lunghi corridoi, dove si susseguono loggiati, un’antica erboristeria, un laboratorio di restauro di codici miniati e il refettorio, il tutto collegato da uno strano intreccio di chiostri pensili. Qui i monaci benedettini, come formiche laboriose, hanno organizzato tutta la loro vita, in questi ambienti ben delineati in una struttura funzionale dettata da una precisa spiritualità in segno della regola “ora et labora” che scandisce le ore e le divide meticolosamente tra preghiera ed opera compiuta.
Padre Norberto, un uomo massiccio ma con un’aria pacifica, ci guida in questo dedalo di ballatoi per svelarci i segreti dell’abbazia, infatti la mole imponente della costruzione rivela subito l’esistenza di un grande complesso monastico che, con linee architettoniche sobrie ed armoniche, è succeduto alle fabbriche primitive, oggi scomparse ad eccezione del campanile.
Giungiamo alla monumentale cisterna dove, dal pozzo sovrastante, l’acqua piovana viene raccolta e filtrata per poi essere riutilizzata. Tutto esprime trascendenza attraverso simboli. Il pozzo non è solo pozzo, è l’acqua dono del cielo che diventa vita passando per il sottosuolo. L’acqua costituisce il viatico per la visione celeste, perché è il mezzo necessario per ottenere la purificazione, l’illuminazione e quindi l’accesso al Paradiso. Non c’è edificio che non abbia un’anima.
Terra e acqua sono gli elementi con cui l’uomo è in contatto da sempre, con cui Dio creò Adamo. I monasteri cercano di riproporre quell’Eden, quel giardino delle delizie, che l’Altissimo donò all’umanità perché potesse vivere in armonia con tutto il creato. Ne “Il filo infinito” Rumiz scrive “la felicità è nel perimetro”, e per ottenere questa felicità i benedettini erano coscienti che il territorio andava modificato, domato, coltivato, anche i paesaggi incolti hanno una loro valenza.
È tramite il paesaggio, quale valore identitario, che possiamo riscoprire le realtà che ci circondano e di cui siamo parte integrante. Attraverso il filtro dei paesaggi monastici, possiamo sviluppare una sana “conoscenza” del territorio, al fine di recuperare le radici storiche e culturali del nostro vivere quotidiano. La grande capacità di reinventarsi, delle strutture monastiche potrebbe rappresentare una sfida interessante anche per il futuro.
Pratalea (località tenuta a prati) così veniva chiamato il monastero nei documenti medioevali, è “una caserma di fede con un’anima contadina”, così Rumiz ha definito questa abbazia che resiste al tempo, iniziando da qui un viaggio nei luoghi mistici benedettini alla ricerca di risposte, ma soprattutto alla ricerca del proprio essere.
Nella ricerca di un senso tra materialità e spiritualità, abbiamo visitato la Corte Benedettina di Correzzola che costituisce una testimonianza di assoluto interesse per conoscere da vicino la vita dell’entroterra veneto, il sistema agrario benedettino, la cultura monastica. I monaci di Santa Giustina di Padova acquistarono l’esteso fondo nel 1129 dalla contessa Giuditta Sambonifacio. In quel tempo, i seguaci di Benedetto, si impegnarono ad offrire sicurezza di vita alle popolazioni disagiate e si adoperarono quindi in una seria sistemazione del fondo cedendo piccoli appezzamenti esistenti fra le paludi e rendendo compartecipi alla bonifica gli stessi coloni ivi residenti. Con armonia idraulica le terre furono strappate al fiume, così il paesaggio veneto è stato plasmato e scolpito dal monachesimo in un perfetto equilibrio tra terra e acqua.
La scelta del sito per costruire un monastero per i monaci benedettini, dipendeva dall’acqua fluviale. Così fu per Benedetto a Subiaco lungo la valle del fiume Aniene, oppure lungo l’ampia valle del fiume Liri dove sorge ben piantata a 520 metri d’altezza la maestosa Abbazia di Montecassino. Scendendo verso l’antica via Appia sui Monti Tifata su sorgenti termali la piccola chiesetta di Sant’Angelo in Formis è testimonianza del passaggio dei monaci benedettini. In una fitta rete, i vari monasteri di tutta Europa, così diversi tra loro, sono uniti da un unico elemento, l’acqua.
Tutto ruota intorno a questo elemento, sorgente di vita, componente primordiale che rende feconda e fertile la terra, attraverso l’acqua tutto fluisce. Nei secoli le varie civiltà hanno costruito relazioni, scambi, hanno organizzato spazi economici e produttivi in base alla quantità o scarsità di questo elemento, che sarà uno dei temi di conflitto mondiale nei prossimi decenni.
“Armonie Composte” non è solo un seminario ma uno spazio di confronto, un’apertura riflessiva, un mettersi in discussione, è la costruzione di una rete relazionale tra persone sensibili ai cambiamenti così veloci e incontrollabili del nostro pianeta. È facile intuire come sia nostro dovere fare il possibile per mantenere e possibilmente incrementare il patrimonio che abbiamo ereditato, con la consapevolezza che non ne siamo proprietari, bensì custodi.
L’Acqua è fonte di saggezza, bene prezioso che dona la vita.
“Incapace di percepire la tua forma ti torvo ovunque intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi con il tuo amore. Il mio cuore si fa piccolo perché tu sei ovunque.” Dal film “la forma dell’acqua” di Guillermo del Toro 2017
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